Racconti di viaggio Valle dell'Omo Etiopia

Spedizione alla ricerca delle tribù integre dei Surma

Quando mi fu proposto di partecipare a questa spedizione, non ci pensai due volte: dissi subito di si! Avevo conosciuto ed apprezzato Alessandro, che mi aveva contattato per propormi questa esperienza nel viaggio in Amazzonia e, quindi, ero sicuro del leader che avrei avuto. 

Ricordo ancora la telefonata dove mi disse: "Marco visiteremo i territori di confine tra Etiopia e Sudan alla ricerca di villaggi Surma. Avremo milizia armata al seguito, sono luoghi dove l’uomo bianco non mette piede da tempo e soprattutto non so bene cosa ci aspetta".

Per un matto di scoperte e avventura come me, era andare a nozze. Fui subito informato sull’itinerario che avremmo seguito ed ero cosciente di quanto sarebbe stato pericoloso, ma un’occasione così non potevo farla scappare. Il viaggio si sarebbe svolto nell'area sud-ovest dell'Etiopia ai confini col Sudan, nella regione abitata da popolazioni Surma e Disi, un'area rimasta ancora selvaggia e che attualmente è visitabile solo a piedi. La soddisfazione di vivere un'esperienza a contatto con popolazioni remote era altissima ed impagabile. Il paesaggio che la località regala alla vista è dato da colline e basse montagne, moderatamente boschive, che si alternano a piccole aree coltivate. Nelle valli si nascondono i piccoli villaggi Surma. L’approccio con i Surma è e deve essere sempre delicato, serve una complessa trattativa con i boss locali per la possibilità di entrare in contatto con loro per visitarli e, soprattutto, la spedizione va svolta con una guida locale che parli la loro lingua, muli per portare viveri e guardie armate di kalashnikov per proteggere noi ed i muli. 
Partiamo da Addis Abeba percorrendo i primi tratti di strada con un buon asfalto che ci porterà nel pomeriggio nella cittadina di Jimma dove ci fermiamo per la notte. Qui riposiamo o meglio passiamo il tempo nel cercare un posto dove dormire, alla fine sarà una topaia e, col senno di poi, sarebbe stato meglio dormire in tenda. Ripartiamo prestissimo e nel pomeriggio siamo a Mizan Teferi, l’asfalto oramai è solo un dolce ricordo. La strada è polverosa, piena di insidie e bisogna essere costantemente attenti. Ogni volta che ci fermiamo, veniamo ‘assaliti’ da una folla di persone: l’uomo bianco da queste parti si vede poco, turisti neanche a trovarli. I bimbi quasi sempre nudi o semivestiti con indumenti di 2/3 taglie più grandi, sempre a piedi scalzi. Ogni volta che ci fermiamo con le jeep, fanno a gara per stringerti la mano, li vedi arrivare dal nulla, di corsa, perché in apparenza non sembra esserci nessuno, poi d’improvviso senti il loro grido yu yu (uomo bianco) accompagnato da una mano alzata in segno di saluto ed un sorriso che ti stringe il cuore. In questa cittadina, incontriamo la nostra guida e pianifichiamo la spedizione, la cena è un momento di riflessione, perché da domani sera saremo in territorio Surma. La sveglia suona presto, dobbiamo cercare di arrivare a Tum col sole, i driver ci saluteranno un po’ prima della fine della tappa pianificata, poi dovremo percorrere un bel tratto a piedi prima di arrivare al villaggio di Tum. 

A Mizan Teferi facciamo una buona scorta d’acqua per la spedizione, ma non basterà! Ecco che il depuratore e le pasticche di Micropur portate dall’Italia si rileveranno di grande aiuto. L’acqua viene razionata in 3 litri al giorno, e con questa dovremo, bere, lavarci e cucinare. A Tum dormiamo nel posto di polizia dove montiamo le tende. Dormo poco e male, i pensieri sono tanti, anche perché stiamo per cominciare la vera e propria spedizione. Fa caldo ci sono 45° e percorriamo territori aridi. L’’incontro con le prime donne Surma è interessante e la tappa si rivela più lunga del previsto, decidiamo quindi di accamparci nel nulla, troviamo uno spiazzo nel bush e la serata scorrerà piacevole sotto un cielo stellato e, intimamente custodisco tanti pensieri che si annidano nella mente. Sono quelle sera che hanno un sapore speciale, poichè ti accorgi di quanto poco abbiamo bisogno per essere felici. Riprendiamo il trek in direzione Jeba e lo scenario si fa diverso, subito diverso, passiamo di nuovo a verdi e rigogliosi altopiani ed arriviamo in un villaggio di Dizi decidendo di fermarci per la notte. Troviamo un pozzo d’acqua e facciamo il pieno alle taniche: naturalmente viene depurata con un minuzioso lavoro di pompaggio e poi pasticche di Micropur. Le milizie armate vogliono parlarci dicendo che si rifiutano di proseguire. 

Non c’è alternativa: se vogliamo continuare, lo potremo fare da soli. I territori da lì in avanti diventano off-limits, troppo pericoloso, a loro dire e ci informano che i Dizi sono in conflitto con i Surma. Questi signori sono espliciti e ci comunicano che non vogliono rischiare la propria vita. Ci riuniamo nel dopo cena e decidiamo di continuare, consapevoli del rischio che stiamo correndo. Sono le 5.00 del mattino quando esco dalla tenda, molto pensieroso, ho uno strano presentimento che mi inquieta. Ci attardiamo per completare le faccende giornaliere e ci rimettiamo in viaggio.Cominciamo a camminare in silenzio, c’è tensione tra di noi, passano poche ore e, quello che non volevamo succedesse, accade. Siamo fermati da un gruppo di guerriglieri Surma, che ci chiede in una lingua che non capiamo cosa facciamo nel loro territorio e soprattutto cosa vogliamo. Questo è quanto ho desunto. Non sappiamo che dire.Uno dei mulattieri che era con noi ha palesemente paura più degli altri e temiamo sia preso dal panico. I signori che abbiamo di fronte sono tutti armati e non hanno delle belle facce amichevoli. Alessandro con la nostra guida ed i muli si trova a circa 30 minuti di cammino dietro di noi. Ha tardato per caricare i muli. Prendiamo tempo e passiamo il messaggio che dobbiamo aspettare il nostro capo: a questo punto, senza pensarci due volte, ci portano sotto un albero e ci tengono il fucile puntato. D’un tratto mi scorre davanti agli occhi tutta la mia vita, e le preoccupazioni delle persone che mi vogliono bene, ho paura ma cerco di non darlo a vedere, sono sfuggente negli sguardi e cerco di non incrociare mai il loro. Fa caldo, siamo sotto un misero albero, sulla cime di una collina in attesa di un miracolo ed ecco, come per magia, apparire Alessandro con i nostri muli. 

D’un tratto mi è sembrato di essere in un film. L’andare di Alessandro lungo le colline è maestoso, sembra sicuro e tranquillo, difatti appena arriva, non si fa prendere dal panico e tende la mano al capo clan, subito omaggiandolo di un coltello svizzero, che lui sembra gradire. Grazie all’omaggio la tensione cala. Alessandro spiega la motivazione della visita e, soprattutto, il rispetto che abbiamo nei loro confronti, essendo venuti disarmati, con la sola voglia di conoscerli e vivere per qualche giorno i loro usi e costumi.
Il capo clan si ammorbidisce ed allora da sequestrati veniamo addirittura scortati. Continuiamo il trek con bei tratti di cammino incorniciati di arbusti fioriti, che si alternano a piccoli nuclei di boschi rigogliosi, dove compare anche qualche scimmia. Alcuni incontri di donne e bimbi Surma lungo il sentiero sono momenti di pausa, per il corpo e per la mente, che ha bisogno di rialimentarsi di energie positive e di credere che la tensione sia scivolata via. Arriviamo nel villaggio di Moga dopo qualche ora e vorremmo visitare la scuola costruita dalla missione di Tuljit, ma è chiusa. Piantiamo le tende e, pranzando,ci accordiamo per potere partecipare a uno spettacolo Donga per il pomeriggio. Passiamo qualche ora in totale relax, per arrivare alla sera stanchi ma felici: oggi è stata davvero una giornata ricca di emozioni. 

Solita sveglia alle 6 e, dopo aver sistemato le cose, visitiamo un villaggio vicino. Le donne ci mostrano la preparazione della birra di sorgo (cereale ricco di fibre ma privo di glutine). Ritornati alle tende il capo clan ci annuncia che ha organizzato per noi una esibizione delle famose Sagine: si tratta di duelli atletici, che si tengono in determinati periodi dell’anno, da giovani della classe di età ‘Tegay’, cioè non sposati, provenienti da diversi villaggi. La Sagine è fatta con bastoni chiamati ‘Donga’ di legno duro, della lunghezza da 210 a 240 centimetri e, durante il suo svolgimento, non è permesso l'uso di altre armi. Restiamo tutti folgorati dall’intensità e bellezza di questa danza/combattimento. Subito dopo la nostra attenzione è per la ‘scarificazione’, processo attraverso il quale i lottatori si procurano prima dei tagli sulla pelle, per poi conficcarci dei piccoli pezzi di legno, semi o cenere. Il processo di cicatrizzazione che seguirà tale pratica, darà luogo alla formazione di rilievi sottocutanei per la ragione di una introiezione e fusione con la pelle di corpi esterni, che diventano tutt’uno con la pelle. L’impressione che se ne ha è di una sorta di tatuaggio in rilievo. Siamo tutti molto affascinati nel vedere questo rituale e la serata passa nell’ascoltare i racconti del capo clan. Ci mostra le ferite riportate durante combattimenti della Sagine e di come sia per loro importante questo evento, la durezza del loro territorio ma al contempo di come siano fieri della loro identità e pronti anche alla morte pur di salvaguardarla. 

L’indomani avremmo avuto tutta l’energia per proseguire la spedizione ed inoltrarci in territori ancora più remoti. Purtroppo la nostra scorta di acqua comincia a scarseggiare e, poiché siamo nella stagione secca, ci sarà un alta probabilità di non trovarne lungo il cammino. Questa volta ci dimostriamo coscienziosi e non ci resta che fare un cambio programma e ripiegare verso valle. I paesaggi sono sempre molto aridi ed il caldo la fa da padrone: ogni giorno l’igiene personale è davvero ridotta al minino. Con una singola bottiglia a cui abbiamo fatto dei fori nel tappo ci laviamo mani e viso in 5 persone. Adesso capisco perché i Surma sono un popolo scontroso e duro:vivere in ambienti secchi e caldi inasprisce anche la mente. Riprendiamo il cammino ed il tragitto verte sempre più in basso, lasciando il bosco a tratti di alte erbe fino a toccare il fondovalle. Arriviamo in un villaggio di cercatori d’oro il cui nome pare sia Cheli, un posto strano apprendiamo:ci vivono coloro che non hanno più nulla da perdere e che cercano l’oro nella speranza di cambiare la loro vita. Lavorano in condizioni disumane, entrando in buche profonde anche 15-20 metri. Guardandoci intorno, ci accorgiamo presto di quanto poco sicuro sia questo posto, ma oramai è tardi e non possiamo proseguire il viaggio. Ci accampiamo nel posto di polizia, o meglio di persone che lavorano per tenere un po’ di ordine in questo villaggio. Montiamo le tende di fronte alle prigioni, che sono costruite con canne di bambù. Al di fuori del posto di polizia molte persone si sono radunate incuriosite da questi pazzi bianchi. Il villaggio di Cheli (che non esiste in nessuna cartina geografica) è una serie di capanne di legno e stuoia distribuite lungo la strada stile Far West e cresciute in pochi anni a seguito della scoperta dell’oro che ha richiamato nel posto gente di varie etnie. 
Di nuovo, mi sembra di essere in un film. 
Ci laviamo con acqua di pozzo e cerchiamo di riposare un po’, andando a bere una birra (calda). Dovunque ci troviamo siamo seguiti da una folla di curiosi. Arriva la notte e per la prima volta nel viaggio mi chiudo in tenda col lucchetto: il posto è pericoloso e purtroppo l’estrema povertà di questa gente può portare a gesti sconsiderevoli. La notte scorre tranquilla e l’indomani ci svegliamo consapevoli che la parte più entusiasmante di questa spedizione volge a termine. Arriviamo a Gabissa, altra cittadina di cercatori d’oro, ma molto più “evoluta”: qui veniamo caricati su un camion che trasporta vuoti di birra e dopo aver contrattato sul prezzo il trasferimento, partiamo alla volta di Dimma dove ritroveremo i nostri driver con le jeep ad aspettarci. Lungo la strada facciamo pausa a Diri dove c’è mercato, in una piantagione di te poco più avanti, per comprare frutta. Arriviamo a Jimma alle 15,00 e ci sistemiamo in albergo. E’ presto e facciamo un giro in paese dove in verità non c’è un gran che da vedere e da fare se non il giro dei vari bar. Siamo tornati alla civiltà e questo un po’ mi dispiace, ma è stata un esperienza di vita indimenticabile, un bagaglio di conoscenza immenso che mi servirà per sempre. La spedizione si conclude con alcuni giorni di relax ad Addis Abeba.

Racconti di viaggio Valle dell'Omo Etiopia